Ultimamente, stento a dirlo, riusciamo ad arrivare puntuali a Messa alla domenica.
Per noi, fino a qualche tempo fa, era una sorta di impresa titanica, fra un pannolino da cambiare all’ultimo, ore per infilarsi le scarpe e io che, lo ammetto, non so mai come vestirmi…cioè abbinare un outfit elegante, ma casual, ma semplice, ma particolare al mio essere mamma, pure incinta e con le occhiaie.
Beh, dicevo, ultimamente arriviamo e ci sediamo massimo al segno della croce, poi, ovviamente, cominciano i deliri ordinari dei genitori a Messa. Fame incontenibile, bisogno irrefrenabile di urlare e correre, sassi che volano, giochi che si fracassano al suolo rimbombando per tutta la chiesa e così via. Quella che io chiamo la “mistica dei genitori”, altro che silenzio nel deserto, noi qui ci giochiamo la vera lotta alla cura dell’anima. E intanto arriviamo all’omelia e, come di consueto, sento stralci di parole a caso, come quando salta la radio in montagna. Così oggi, invece di eccedere nel solito tentativo di soffocamento dei miei figli con sguardi da regina di ghiaccio, ho detto: “Signore, quello che il mio cuore ha bisogno di sentire fa che mi arrivi all’orecchio, mi basta”.
E così il sacerdote mi ha ricordato il senso, il nucleo portante delle tre parabole di oggi; del perché Mosè osa tanto davanti a Dio, io sinceramente avrei inveito sul popolo di Israele, giudicandolo senza tanto pensarci su; di San Paolo che non fa altro che ricordare quanto, nel suo essere il peggiore dei peccatori, Dio lo abbia ricolmato di Grazia e fiducia.
E qui veniamo al punto, la misericordia. Una parola che nasconde una profonda ricchezza, una parola pozzo, anzi, per me, che sono ostetrica e mamma, è una parola grembo, genera amore nel suo traboccare d’Amore. Gli aspetti che più mi preme mettere in luce li prendo dall’ebraico e sono due termini, ognuno dei quali ne spiega una sfumatura.
Rahúm che porta la stessa radice di rehèm, cioè “utero” che per estensione connota la caratteristica compassione e tenerezza di una madre. E il nostro caro sacerdote ci diceva: il padre riaccoglie il figliol prodigo in questo modo, con questa disposizione di cuore. E io mi sono detta: pronto??
Un attimo, riavvolgiamo il nastro. Perché in questo momento la sensazione mi è molto chiara: da gennaio ho in grembo un piccolo, anzi ora grande, esserino. Da quando abita qui, a circa dieci cm dallo schermo su cui sto scrivendo, ho passato mesi di nausee, ore sdraiata sul divano senza forze, fiatone al pensiero delle scale, corpo che si allarga, curve che si modificano, cambi continui di taglie e vestiti, notti insonni, doloretti vari, pianti e nervosisimi a random e (scusate, ma lo devo dire, è pure un segno di buon funzionamento degli estrogeni) cellulite. Cioè fare spazio a queste meravigliose creature è una cosa seria. Bellissima, commovente (appunto), emozionante, vitale, unica … con una dose di accoglienza incredibile. Direi, per sintetizzare il concetto, che è estremamente totalizzante. Quindi mi ha colpita al cuore pensare che questo tipo di accoglienza è quello che il nostro Papà offre ad ognuno di noi. E che, come San Paolo, dopo averlo sperimentato, è da condividere con chi incontriamo sulla nostra strada, con schiettezza, verità e apertura.
Apertura, sí, ho scritto bene. E qui veniamo al mio nucleo di adesso. Da qualche giorno sono a termine, ho davanti il parto. Un momento veramente catartico, donativo… denso. Sí, quello che sto cercando di dire è che vivo sentimenti molto contrastanti davanti al dolore che porta alla nascita. Da ostetrica avrei tante cose da dire e qualcuna, per chi ci ha seguiti nel podcast “uno spazio per te”, l’ho anche detta. Ma adesso sono solo mamma. E, quindi, mi sono detta che è pazzesco come in questa misericordia, in questa tenerezza del grembo, in questa accoglienza uterina sia scritto silenzioso e nascosto il dolore. Sì perché ad un certo punto bisogna lasciare andare. La mamma dona la vita aprendo il suo corpo alla separazione. Il bambino viene alla vita attuando la separazione, spingendosi fuori in una stupefacente sinergia con le doglie. È un lavoro di squadra. Ma che richiede da parte di entrambe il dolore del cambiamento. La madre vive le contrazioni, si lascia attraversare da una potenza creatrice che la porta a perdersi per ritrovarsi. Il bambino passa per la cruna di un ago, fra compressioni ed espansioni che lo portano ad attivare tutti i recettori necessari all’adattamento alla nuova vita, a lanciarsi nell’avventura della respirazione, della gestione dello spazio, dei rumori, delle luci, del freddo. Seguimi ancora un po’, mi serve un altro esempio! Ieri parlavamo con amici delle difficoltà del lavorare in team: per creare e vivere l’unità nella trasmissione del messaggio che si vuole portare si torna sempre a casa con qualche taglio, graffio, ferita. Perché la comunione richiede necessariamente una morte. Vi risuona qualcosa di familiarmente pasquale?
La comunione passa per la croce, passa per il donare la vita senza sconti, passa dal versare il sangue. Perché è una Grazia e richiede di passare per il sepolcro che porta alla Risurrezione..! Rendere le nostre fragilità non una tomba di morte, di divisione e rancore, ma un sepolcro di risurrezione, di vita, di Amore da Dio.
E a me, che sono una fifona patologica, sorge una domanda, non so se anche a te: ma perché il dolore? È una delle mie domande preferite, la faccio sempre in continuazione.
E qui mi viene in aiuto San Paolo che spiega in modo ineccepibile il secondo termine riferito a misericordia, ovvero “Hèsed”, che sottolinea come sia dono gratuito, una Grazia che non appartiene al nostro modo limitato e piccolo di amare. Cioè io, per esempio, sempre per stare su di me, non è che sono molto disponibile con chi mi sta facendo soffrire in questo momento. Mi sento lasciata sola, non capita, non voluta bene e la mia fragilità viene fuori tutta! Sono arrabbiata e la compassione, la comprensione e l’accoglienza uterina me le infilo in tasca, sono sincera. Eppure con queste persone, davanti a questi volti che ho ben chiari, sono chiamata a vivere un Amore più grande. Precisamente quello che mi porterà a dare alla luce il mio bambino nelle doglie del parto.
E questo mi provoca fino all’osso.
E, quindi, perché questo benedetto dolore? Perché ci costringe a fermarci ad ascoltare, di più, ci spinge oltre, fuori da noi, perché ci mette a nudo nelle nostre fragilità, ci fa toccare con mano che non siamo invincibili e perfetti. Perchè crea lo spazio della relazione, la culla che ci porta a cercare Qualcuno che dia un senso a quello che viviamo. Crea un ponte indissolubile con l’Amore, con il nucleo dell’amore che è il dono per amore, il corpo donato per amore. E con corpo intendo tutto di noi, noi stessi nella nostra pienezza.
Come potrei partorire Gemma senza vivere in anima, corpo e mente questa necessità?
E qui ci sono i tre passi, le tre dimensioni della vita di chi vuole incontrare, incontra e sperimenta l’amicizia con Gesù: fare esperienza di un Padre carico di compassione per noi, che ci accoglie nel suo grembo con amore senza meriti, con cui possiamo e dobbiamo essere noi stessi; vivere da Figli amati, sperimentare questo modo totalizzante di essere amati, che ci dona un’identità (vestito), un’eredità (anello), la gioia piena dell’essere in famiglia (sandali); andare nel mondo e raccontare che questo Amore è per tutti, proprio per tutti coloro che vogliono corrispondervi. Infatti, “hesed” raccoglie, anche, la necessità di ogni uomo della libertà, dell’Amore libero di un Dio che lascia a noi la scelta, anche di allontanarci, di rifiutarlo. C’è una reciprocità che spetta a noi innestare in questa famiglia di cui siamo chiamati a fare parte. E per dirla alla Don Benzi “Ci stai?”.
Queste righe sono un perfetto ponte che ci aiuta a riprendere le fila del percorso in cui siamo inseriti in “Un corpo mi hai dato”: abbiamo infatti concluso a giugno “Into the womb”, i nostri nove mesi nel grembo di Dio per rinascere a nuova vita. E siamo agli sgoccioli dell’inizio di “Tra le braccia”, cioè la nostra esogestazione, i nove mesi tra le braccia dopo la nascita, il cui obiettivo è quello di innestarsi nella nostra unicità all’interno della Chiesa.
Questo è il vero lavoro di comunione, questo dà vita al corpo mistico di Cristo: passare dalla croce, sanguinare, provare quel dolore che non ci richiude su di noi, ma ci apre al dono totale, al nostro essere donanti, che è la pienezza della realizzazione dell’uomo nella vita, nel mondo, nella Chiesa… nell’eternità!
Non è qualcosa che si può spiegare razionalmente o che può rientrare nella logica umana: è un’esperienza da vivere, una bellezza incarnata che ti chiama e ci chiama a vivere un di più la cui sorgente è la forza d’Amore dello Spirito Santo, che fa nuove tutte le cose prima di tutto i nostri cuori!
Mery
Ciao Mery, sono a Roma. In silenzio e al fresco alle porte di San pietro. Un viaggio che ha dell’incredibile perché atteso da 19 anni, sono con buona parte della mia famiglia. Benni e Gio dormono già e nonostante la stanchezza sento in cuore il desiderio di confrontarmi con Gesù, di ringraziarlo, di ascoltarlo, ho bisogno di uno spazio di intimità con lui e di un suo abbraccio. Ho letto le tue parole incuriosito dall’immagine dei bimbi a messa che mi ha strappato un sorriso. Il resto però della tua riflessione mi ha colpito ed emozionato per la verità che trasporta e perché mi ha coinvolto. Ti ringrazio e ti abbraccio. In quello che hai scritto mi sono sentito consolato. Fra
Fra..grazie della tua condivisione! Siamo tutti stretti in quell’abbraccio consolante e incoraggiante! Portaci con te davanti a Gesù!
Carissima Marianna, quello che hai scritto e come lo hai scritto è arrivato a tutta me stessa. Come donna, ho sentito questi cambiamenti nel mio corpo. Com’è complesso questo cambiamento e come se ne parla poco. Spesso la donna è sola di fronte a questi cambiamenti e non ci sono spazi, tempi e professionisti che accolgono le domande di questi mesi. Si potrebbero addolcire tante difficoltà. E il tuo articolo fa questo. Grazie per donarti. Te lo dico come donna e per donarti con amore, per amore di Dio. Grazie perché mi aiuti ad ascoltarmi, cosa molto difficile per me . Grazie a Emanuele. Vi voglio bene